"La boca no xe straca se no sa da vaca"
Allora, ci eravamo lasciati tra monasteri e chiese: fuor di metafora, abbiamo visto quanto importante sia stata la Chiesa nel promuovere l’uso del formaggio e del burro, come condimento di magro. Ma del burro ce ne occuperemo a tempo debito.
Se il formaggio era salito agli onori degli altari, diciamo così, la cultura medica del tempo, che sul cibo aveva l’ultima parola, non poteva far finta di niente. E si comincerà a discutere… a partire dal latte. Quale il migliore? Nessun dubbio: quello materno. Ma riguardo al latte animale nell’antichità e nel Medioevo quello per eccellenza era il latte di pecora o di capra. Per una ragione molto semplice: la vacca era ritenuta animale da lavoro. A questo proposito Isidoro di Siviglia, VII secolo, poneva una chiara distinzione fra due categorie di animali: “Quelli che servono ad alleviare la fatica dell’uomo, come i bovini, gli equini, e quelli che servono a nutrirlo, come gli ovini e i suini”. Ma il latte di pecora e di capra era ritenuto migliore sia sul piano del sapore sia sul piano delle virtù nutritive. A seguire le prime semplici norme di carattere igienico. Ildegarda di Bingen, dottore della Chiesa (1098-1179), raccomandava: “Il latte è più sano d’inverno che d’estate a motivo del calore […] è utile, specie d’inverno, addizionarlo con radici e ortiche […] I malati non devono eccedere ed è meglio che prima lo facciano bollire”. Pantaleone da Confienza, autore della prima grande guida dei formaggi, la Summa lacticiniorum (1477) chiarisce: “Il latte è consigliabile esclusivamente alle persone che godono di perfetta salute, e con molte precauzioni: dovrà essere di bestia sana, di buona qualità e appena munto; lo si berrà in ogni caso digiuno, ad almeno tre ore di distanza dai pasti, astenendosi poi da l’esercizio immediato di attività fisiche impegnative”. Guai poi a mescolare nello stomaco latte e vino!
E di conseguenza, se questa era la graduatoria, di necessità si stilava una sorta di hit-parade dei formaggi. Scriveva l’umanista Bartolomeo Sacchi detto Il Platina, autore a fine ‘400 del primo grande ricettario umanista, De honest voluptate,
“Si reputa ottimo quello di capra perché aiuta lo stomaco, elimina le occlusioni del fegato, lubrifica l’intestino; si per secondo viene quello di pecora, per terzo quello di mucca”.
Non sempre poi concordavano. Michele Savonarola, medico padovano al servizio presso la casa d’Este a Ferrara, sentenziava a inizi ‘500:
“I migliori: il caso ovino è men rio del vachino, dico megliore, de megliore odore e certo al gusto più delectevole […] Il caso vachino è più nutritivo, il perché è più butiroso e el buthiero molto nutrica. Il caso facto de pecora parte duo e del vachino parte una è al gusto più delectevole assai e anco dicono i gulosi essere più sano”. E conclude: “ Che’l caprino de tutti è pezore…perché subito si seccha e fasse poroso molto e molto se terestrifica e fasse molto frangibile, di cativo odore e sapore…”.
È un passo importante e denso di informazioni, di valutazioni sensoriali, rinvia a mancate o scarse tecniche di conservazione e affinamento. C’è poi quell’accenno al formaggio misto vacca-pecora (verrà chiamato misturino) che sarà il vero formaggio di molte aree alpine e prealpine della Padania felix, fino a fine ‘800. E già sulle piazze dei mercati cittadini aveva fatto la sua comparsa il Morlaco Salà Navegà, proveniente dalla Dalmazia via Venezia. Il medico lavorava ai fianchi la gola del principe, tentando di dare qualche appiglio o giustificazione medica al fatto che la gola aristocratica non poteva non cedere alle delizie casearie, propinque a Ferrara: proprio a Piacenza si fabbricava quel Piasentin, molto simile al Parmigiano, che rappresenterà per secoli il top, degno degli awards cheese di marcominniana pensata. Insomma, quasi da esperto ONAF, Savonarola concludeva che:
“E sapia tua Signoria che meglior è quello che non extende comme visco e anco che tosto non se rompe e che è dulce e suave al gusto. Vole haver questa conditione, sia tendente al citrino, non habia ochij ma pianzente sia…”.
Che si riferisse al Gorgonzola? Ci inganna quel citrino, colore simile al giallo limone. Bah… serve investigatio!
A questo punto bisognava stabilire quale formaggio mangiare, a che età e soprattutto in che momento. Ildegarda, a noi nota, sosteneva che chi ha una costituzione robusta e sana può tranquillamente mangiare il formaggio duro e stagionato. Chi invece è pingue, insomma grassoccio, con una carne “umida e flaccida” (certo la monaca usava un lessico senza peli) conviene la casatea.
Per digerire formaggi stagionati ci vogliono stomaci gagliardi perché, annotava il Platina, il formaggio stagionato “è pesante da digerire, nutre mediocremente, non fa bene allo stomaco e all’intestino, genera bile, fa venire la gotta, dolore ai reni, renella e calcoli”. Mentre il fresco “nutre molto in maniera efficace, calma l’infiammazione dello stomaco, giova ai malati di tisi”. Si lavorava per empiria, la scienza medica aveva una lunga tradizione, da Ippocrate a Galeno per arrivare alla Scuola Salernitana. Alessandro Petronio, autore de Del viver de gli uomini, e di conservare la sanità, edito a Roma nel 1592, non aveva dubbi:
“Ogni sorte di cascio […] muove catarri e tossi in quelli che passano la vita senza esercizio: perché non potendosi cuocere [digerire] né liquefare, se non con difficoltà si stringe in se stesso e s’indurisce e si ritiene più longo tempo nello stomaco”.
Per l’uomo che vuole mangiare il formaggio cotto o arrostito, conviene che lo spolveri di cumino, mentre chi ha dolore ai polmoni è consigliabile un cacio molto stagionato e piccante. Quindi una sola raccomandazione: Caseus est sanus quem dat avara manus, ossia solo il formaggio mangiato in piccole dosi non fa male alla salute. Ma come spesso accade un conto è la teoria, un altro conto è la pratica! Il medico del duca di Savoia, Ludovico Bertaudo, nel 1618 concludeva:“se ben il formaggio porti qualche nocumento, nientedimeno il suo continuo uso fa che non noce tanto”, della serie se questo passa il territorio o questo passa il convento… ci si abitua e il formaggio diventa il companatico.
Esistevano dei correttivi, per più ragioni, di gusto e di prestigio. Il Savonarola non ha dubbi
“che’l continuo uso del formaio è cativo e inaludabile e da medici vituperato, spetialiter in quantità, e in quelli che non sono a zò usati…”. Ma si può derogare e, conclude, si può mangiare il formaggio “sopra altri cibi comme lasagne et cetera e in poca quantità e dopo pasto secundo usanza latina” e questo “non è vituperato, anci è commendato. Conforta la bocca”.
Due cose: l’uso di grattugiare il formaggio sopra le lasagne da una parte, e dall’altra la soluzione di un’altra grande questione, quando mangiare il formaggio, a che punto del pasto: tutti concordi…alla fine.
Domenico Romoli autore de La singolar dottrina, Venezia 1560, scrive:
“che del cascio, quantunque buono, non si debba mangiare molto, come fan quei che non mangiano in una cena altro che pane e cascio… che quel poco che se ne ha da mangiare sia dopo l’aver mangiati gli altri cibi perché corrobora e sigilla la bocca dello stomaco…”.
Ci siamo! E nel nostro universo culturale, che a volte si sostanzia nei modi di dire, acquista allora senso il mantra che ci accompagna ad ogni fine pasto: La boca no xe straca se no’ sa da vaca! I medici del passato non avevano dubbi: il grande umanista, Platina, lo dice chiaramente: il formaggio mangiato a fine pasto “sigilla la bocca dello stomaco e toglie la nausea provocata dai cibi grassi”. Dubbi?
Un ultimo passaggio: comunque sia, va bene portare in mensa del principe il formaggio ma lo vogliamo un po’ nobilitare, impreziosire? Certo, o con una spruzzatina di spezie in certi modi di preparalo o con l’abbinamento. E quindi “Al contadino non far sapere quanto è buono il formaggio con le pere”. Il perché lo diremo la prossima volta.
Intanto vi proponiamo la ricetta del formaggio cotto e del crostone di Maestro Martino da Como, il maggiore cuoco italiano del Quattrocento. Leggetela attentamente e osservate cosa aggiunge alla fine.
Il formaggio oramai è stato sdoganato: ha trovato posto nella scienza gastronomica… a patto che… Intanto buon appetito!
Formaggio cotto e…. crostone secondo Maestro Martino da Como
Piglia del caso grasso, et che non sia troppo vecchio né troppo salato, et tagliarai in fettolini o bocchoni quadri, o como ti piace; et habi de le padellette fatte a tale mistero (tegamini adatti a ciò); en sol fondo metterai un pocho di butiro, overo di strutto fresco, ponendole a scaldare sopra le brascie, et dentro gli mettirai li ditti pezzoli di caso; et como ti piace che sia facto tenero gli darai una volta, et mettendogli sopra del zuccharo et de la canella; et mandaralo subito in tavola, che si vol magnare dopo pasto et caldo caldo. Item poterai conciare in altro modo lo ditto caso brustolando, prima arrostendo al foco de le fette de lo pane tanto che da ogni lato s’incomincino a rostire, mettendo le dicte fette per ordine in una padella da torte; et sopra a quelle ponerai altramente fecte di caso un pocho più sottili che quelle de lo pane; et sopra la padella mettirai lo suo coperchio fatto caldo tanto che ‘l ditto caso s’incominci a strugere, o a squagliare. Et facto questo gli buttarai di sopra del zuccharo con un poca dicanella, et zenzevero.
Danilo Gasparini
Docente di storia dell'agricoltura e dell'alimentazione