“Al contadino non far sapere quanto è buono il formaggio con le pere”. Ci eravamo lasciati con questo proverbio, con questa sentenza.
Massimo Montanari in un suo gustoso saggio ha sviscerato e chiarito questa faccenda, proponendo anche le versioni medievali di tradizione francese e spagnola. L’abbinamento pere-formaggio - cerco di fare Bignami - risponde a due suggestioni, l’una di tipo medico e l’altra di tipo culturale.
Quella di tipo medico si rifà alla secolare e antica teoria degli umori, una sorta di costruzione di sapere medico che si deve a Ippocrate, medico dell’antica Grecia, che regolava in modo olistico la vita. Partendo dai quattro elementi naturali - acqua, terra, aria, fuoco - si pensava che nel nostro corpo fossero presenti quattro umori – sangue, flegma, bile nera e bile gialla - dislocati in quattro parti del corpo. A ogni elemento erano associate delle qualità: caldo, freddo, secco e umido. A seconda del prevalere di uno di questi elementi si ipotizzavano quattro tipologie di complessioni o caratteri : il flemmatico, il sanguigno, il collerico, il melanconico. A farla breve queste qualità venivano trasferite ai cibi, per cui un prodotto poteva essere, in diversi gradi: più o meno caldo, più o meno freddo, più o meno secco e più o meno umido. Compito del cuoco, ma anche regola di vita, era cucinare, imbastire e consumare pasti equilibrati - temperati dicevano - attraverso tecniche di cottura, accostamenti…. Ergo: la pera è umida e fredda e sta bene con il formaggio secco e caldo, come con il prosciutto e melone, pane burro e zucchero…
Torniamo a noi.
Sul piano culturale c’è, al solito, la questione della nobilitazione: essendo il formaggio, lo abbiamo detto, considerato un cibo povero, lo nobilito con la pera, considerata un frutto delicato, fragile, aristocratico, dal forte valore simbolico.
Dimenticavo: i toscani da par loro girano il detto: “Non far sapere al contadino quanto è buono il formaggio con le pere…ma il contadino, che non è coglione, non lo fa sapere al padrone. Tieh!”
I formaggi ci sono, girano per le tavole. Ma quali formaggi, che tipologia, quali aree di produzione?
Ci pensa Pantaleone da Confienza che a fine ‘400 pubblica una prima straordinaria guida ai formaggi, rigorosamente in latino: Summa lacticiniorum… suona pomposo e bene. Pantaleone, medico di Vercelli, laureato a Pavia nel 1440, esercita presso i Savoia e gira, per ragioni diplomatiche, in Francia, in Italia, nei Paesi Bassi, in Svizzera. Osserva, indaga, chiede, annota. Nel 1477 dà alle stampe la sua Summa: un agile volumetto di 59 pagine di 31 righe ciascuna. È subito successo: viene ristampato più volte.
È diviso in tre sezioni: la prima è un vero e proprio trattato di caseificazione. Parte dal latte, cerca di capire il perché della coagulazione con degli esempi strani:
“(…) immergendo della lana nel lattice dei fichi e poi lavandola in una determinata parte del latte”
e poi, parlato del burro, cerca di stabilire la diversità dei formaggi in base a una serie di parametri quali lo spessore della crosta, la salatura, il tipo di caglio usato…ma anche in base a chi li confeziona.
Nella seconda sezione, ed è la prima interessante geografia casearia, Pantaleone costruisce una sua strada europea dei formaggi, di quella Europa che lui ha calcato. Parte dalla Toscana: parla dei marzolini toscani:
“Sono molto puliti, brillanti, del colore della cera citrina si ottengono per lo più dal latte di pecora (…) Sono formaggi prelibati e vengono esportati in terre molto lontane”. Poi entra nella via lattea: Piacenza, Parma, basso Milanese, Pavia, Novara e Vercelli. E racconta del parmigiano o del piasentin: “Sono grossi e larghi e pesano a volte cento libbre e sono di bellissimo aspetto: li tengono così puliti che nella loro crosta non è visibile la minima sporcizia. Li controllano infatti spessissimo, ripuliscono la crosta, li lisciano con le mani e li raschiano”. Stagionati fino a quattro anni sono saporiti e gradevoli. Il tutto dovuto a un’esperta arte casearia ma soprattutto alla “Bontà dei pascoli i quali fanno germogliare erbe profumate, sia in quelle dolci colline sia in pianura (…) sono infatti pascoli speciali per il latte”.
Questi luoghi sono celebrati anche da Ercole Bentivoglio nel 1546:
“Chi vuol del buon formaggio, a Parma vada,/A Piacenza, a Milano, e in quelle bande,/Che ve n’è sempre piena ogni contrada./La Toscana ancor lei par che ne mande/De’ buoni, ma vi è gran differenza,/Come l’asino a Bue, da pere a ghiande,/ E benché nomi l’suo per eccellenza,/Et la Romagna tanto se ne vanti/ Non ti partir lettor mio da Piacenza”.
Anche Giulio Landi nella sua Formaggiata di Sere Stentato al Serenissimo Re dela Virtù, stampato in Piacenza nel 1542, ne esalta le lodi.
Cresce il mito: Pantaleone intervista i malghesi e assaggia. Prosegue poi per il Monferrato, per la Morra, gusta le robiole, va in Val d’Aosta, incontra la Fontina, anche se non la chiama così, il Serraco di Nus, prosegue attraversando il Ducato di Savoia, risale la Val di Locana, o val dell’Orso nel Canavese, si ferma a Ceresole, arriva in Val di Lanzo, i cui formaggi
“(…) si dicono utili per i poveri perché questi, nelle pietanze fatte con quei formaggi, specialmente le torte, grazie al loro pizzicore sono dispensati dall’usare spezie e sale”. Il sapore piccante deriva dalla loro stagionatura: appesi avvolti con paglia di segale. Attraversa la Val di Susa, il Moncenisio e accenna a una precoce cooperazione: “Succede che alcuni formino delle cooperative (societates): ognuno mette in comune il suo latte e, una volta confezionati i formaggi, se li dividono proporzionalmente secondo il numero delle bestie. I formaggi prodotti nei giorni festivi sono riservati alla Chiesa”. Attraversa la Savoia (la Moriana-Maurienne e la Tarantasia…la Tarentaise): “Qui si producono anche certi formaggi che d’inverno si fondono al fuoco”. Cita i formaggi della Bresse e della Borgogna “che da certuni sono chiamati teste di morto (…) che valgono poco o nulla, insipidi, friabili e tanto terrosi che a stento in essi si può trovare una sapore passabile”. Migliori quelli di Craponne, nel lionese, buoni tanto che “non potevano essere passati sotto silenzio”.
Quando affronta la Francia scrive:
“Questo capitolo, da solo, dovrebbe avere le dimensioni di un intero trattato”.Si sofferma sulla Bretagna, le cui donne hanno imparato a estrarre il burro e confezionano formaggi magri. Un consumo spropositato di burro tanto che si dice: “Come la ragazza mangia le pere, così il Bretone mangia il burro” (curioso, per quanto si raccontava all’inizio). Si dilunga soprattutto sui formaggi della Brie, ma anche di Argenton, di Nevers: degusta, assaggia, assieme al suo principe Ludovico. I formaggi inglesi li trova al mercato di Anversa: “sono anche formaggi di bell’aspetto: in essi stampigliano figure di animali, di lettere, di fiori e simili (…) e sono abbastanza simili ai piacentini sia quanto a colore che a sapore, ma non sono altrettanto grandi né altrettanto massicci”. Nelle Fiandre - soggiorna a Gand - “Non ricordo di aver mai mangiato un buon formaggio”. Gli abitanti consumano esagerate quantità di latte (…) e credo sia una delle cause per cui da quelli parti si trovano tanti lebbrosi!” E chiude “Sono stato a Berna, Strasburgo, Lucerna e Zurigo (…) Non ricordo di avere mangiato formaggi particolarmente gustosi, ma solo alcuni di sapore non eccezionale”. Forse, dice, è perché sono dediti al burro.
Nella terza sezione, da medico, riprende i temi della teoria degli umori: quali formaggi si addicono ai diversi temperamenti o complessioni. Al collerico “si adatterebbe meglio un formaggio di costituzione più fredda come quello non salato (…) il quale è buono per stemperare l’acutezza dell’umor collerico”, mentre al flegmatico meglio somministrare un formaggio stagionato. Chiude il suo trattato declinando i tipi di formaggio da consumare a seconda delle età e delle malattie. Il meno peggio, per un vecchio decrepito, è un formaggio stagionato ma consumato con moderazione. A prescindere:
“Caseus sanus est quem dat avara manus” ma, ammette con onestà, “E questo sembra il comportamento giusto da tenersi dai ricchi e dai nobili. I poveri invece, e quanti sono spinti dalla necessità quotidiana a mangiare formaggio, non sono tenuti a osservare le regole suddette, visto che sono costretti a mangiare formaggio all’inizio, metà e fine del pasto”.
Pantaleone, con modestia, dice che voleva solo far conoscere cose che non sono note a chi abita al di qua dei monti e viceversa e lo ha fatto con umiltà:
“Mi rimetto sempre a un giudizio più valido e alle correzioni degli esperti perché mi giudico il più umile degli scienziati”. Un messaggio dal profondo dei secoli ai membri dell’ONAF.
Intanto nelle città della Terraferma veneta si consumava tanto morlacco.
Danilo Gasparini
Docente di storia dell'Agricolutra e dell'Alimentazione