Dove eravamo rimasti? Ah, sì alla conquista della civiltà pastorale dell’intero Mediterraneo e dell’Europa centrale.
Siamo allo scontro di civiltà. Portiamoci con la fantasia nel pieno della civiltà greco-romana, tra VI secolo a.C. e VI secolo d.C., circa mille anni di storia… poca roba.
Il contesto mediterraneo non era certamente favorevole al consumo di un prodotto delicato come il latte. Erodoto, il grande storico greco, definiva gli Sciti, una popolazione nomade di origine iranica, quindi indoeuropea, “ippomolgoi”, ossia mungi-cavalle. Il consumo di latte veniva individuato come segno alimentare della barbarie: in fondo i barbari non sono che popoli ancora nell’età infantile.
Sul piano simbolico si contrappongono le società agricole evolute alle società pastorali primitive, i cibi elaborati e inventati, culturalmente, dall’uomo, come il pane o il vino, ai cibi forniti spontaneamente dalla natura, come la carne o il latte. Lo storico dei Goti, Jordanes, diceva che questi per la maggior parte bevevano latte.
E l’assioma era immediato: se è vero che il latte è nell’uomo un alimento legato all’infanzia, un popolo, una civiltà come quella dei “barbari” che si nutre di latte è ancora una civiltà in uno stadio infantile. Noi, dicevano Greci e Romani, abbiamo costruito dei cibi frutto di una cultura: il pane e il vino. Così avevamo una sorta di Europa divisa in due: una mediterranea legata a pane, vino e olio, e una nordica legata al latte, alla pastorizia, alla caccia.
Al latte si associava l’idea della vita che nasce: una simbologia assai semplice da decifrare in cui anche il colore bianco concorreva a definire l’immagine di bontà e di purezza. Il latte è cosa buona, fonte di vita e di salute. I medici antichi e medievali lo ritenevano una sorta di sangue imbiancato purificato.
Secondo Ippocrate e Galeno, i due grandi medici dell’età classica, il primo greco e il secondo romano, il latte animale non è alimento appropriato per l’uomo. Nei primi tempi del Cristianesimo, il pasto sacro dei fedeli comprendeva talora il latte. Quale alimento connesso all’infanzia, il latte viene pressoché unanimemente rifiutato nell’età adulta.
Nell’antichità e nel Medioevo il latte animale per eccellenza era il latte di pecora o di capra. Isidoro di Siviglia, VII secolo, poneva una chiara distinzione fra due categorie di animali: “quelli che servono ad alleviare la fatica dell’uomo, come i bovini, gli equini, e quelli che servono a nutrirlo, come gli ovini e i suini”. Il latte di pecora e di capra era ritenuto migliore sia sul piano del sapore sia sul piano delle virtù nutritive.
Ildegarda di Bingen, dottore della Chiesa, (1098-1179) nella sua opera Liber subtilitatum diversarum naturarum creaturarum sosteneva che il latte è più sano d’inverno che d’estate a motivo del calore… è utile, specie d’inverno, addizionarlo con radici e ortiche. I malati non devono eccedere ed è meglio che prima lo facciano bollire. Inoltre il burro vaccino è migliore di quello di capra o di pecora ed è molto adatto ai tisici perché, nutrendoli, risana il corpo arido. Dispensava così diversi consigli propri di una cultura empirica, che elaborava i propri principi partendo dall’osservazione e cercando di dar spiegazione a fenomeni di cui non comprendeva la natura. Sulla base appunto della scienza medica del tempo asseriva che alle persone che hanno una costituzione sana e una struttura robusta e soda, il formaggio duro e stagionato non fa male e all’opposto a chi è pingue, con una carne umida e flaccida, fa bene il formaggio fresco e molle. Chi vuole mangiare il formaggio cotto o arrostito, conviene che lo spolveri di cumino, diceva Ildegarda di Bingen, mentre per le persone che hanno dolore ai polmoni è consigliabile un cacio molto stagionato e piccante. Qui sta l’essenza del pensiero medico. Non tutti possono mangiare tutto in tutte le stagioni: dipende!
Si discuteva del latte per poi arrivare al formaggio. Nei confronti del formaggio la cultura antica e medievale nutriva forti perplessità. I meccanismi della coagulazione e della fermentazione erano visti con sospetto dalla scienza medica e tutti i trattati di dietetica ne sconsigliavano il consumo o come minimo vi ponevano dei forti limiti. La diffidenza era legata ai significati negativi attribuiti alla fermentazione e quindi alla corruzione e putrefazione della materia organica. C’erano anche ragioni di tipo pratico legate al gusto e all’olfatto di un prodotto che non di rado assumeva, nonostante l’impiego massiccio del sale per favorirne la conservazione, un aspetto marcescente.
Così, a mo’ di precauzione, recitava un precetto della scuola salernitana: Caseus est sanus quem dat avara manus, ossia solo il formaggio mangiato in piccole dosi non fa male alla salute.
Ma il trionfo del formaggio e la sua accettazione è una faccenda medievale, perché nonostante le molte attestazioni letterarie il formaggio risultava nella cultura antica socialmente evocato come alimento povero. Il processo di nobilitazione del formaggio si snoda attorno al modello alimentare monastico, che prevedeva la rinuncia parziale o totale consumo di carne. E si discuterà molto se, una volta tolto il siero, il formaggio, la cagliata sia carne.
Così San Benedetto da Norcia, nel dettare la regola ai propri monaci, i Benedettini, imporrà la rinuncia alla carne, fonte di desiderio, di gola e di lussuria. La carne allora verrà rimpiazzata da cibi sostitutivi quali il pesce, le uova o appunto il formaggio… Tali scelte si estenderanno ben oltre l’ambito monastico e investiranno tutta la società cristiana, coinvolgendo tra periodo di Quaresima, vigilie e astinenze settimanali gran parte dei giorni dell’anno… fino a un terzo.
Il formaggio a questo punto, se da un lato vide confermato e accentuato il suo statuto di alimento povero sostitutivo di un altro, la carne, ritenuto ben altrimenti prestigioso e desiderabile, dall’altro venne come si diceva nobilitato, assunto a protagonista primario della dieta, fatto oggetto di attenzioni più mirate e talora di sperimentazioni e ricerche innovative. Stessa sorte per i condimenti: non si useranno più, in tempi di digiuno e astinenza, in Quaresima, lardo o grassio animale, ma si imporrà, con speciali licenze, il burro.
Come sempre la cultura della rinuncia diviene generatrice di una nuova cultura gastronomica. Così abbazie, monasteri, certose diventaranno luoghi di produzione di eccellenti formaggi.
Un caso esemplare: la Certosa del Montello, sorta al centro del Bosco del Montello, fondata grosso modo a metà del 1300 su iniziativa dei Conti Collalto. A fine ‘400 la piccola comunità monsatica, venti confratelli, possedeva un patrimonio cospicuo di animali, accuditi da vacari, boari, casari, pastri e soto-pastri (pastori)… oltre 15 famuli, operai. Questa la mandria nel 1496: 348 pecore “zentili”, la Gentile di Puglia, 52 capre, 7 asini, 12 porci grandi, 3 muli, 1 mulo e 1 cavalla più 40 vacche da latte. Ma ancora più cospicue erano le riserve di formaggio in magazzino (fig. 2)! E certamente non tutto era consumato in monastero, ma prendeva le vie dei mercati cittadini.
Sdoganato il formaggio, nobilitato, entrerà di diritto nei grandi manuali di medicina del tempo, come nel prestigiso Theatrum Sanitatis, riccamente miniato (foto in alto), un trattato medico molto diffuso tra i secoli XIV e XV. L’autore del testo è Ububchasym di Baldach, un medico cristiano nato a Bagdad e morto nel 1068. E se fate un giro alla torre dell’Aquila, al Castello del Buonconsiglio di Trento, troverete nel racconto dei dodici mesi, il mese di giugno dedicato all’arte casearia.
Che dire? San Benedetto, gratias tibi agimus, ti rendiamo grazie!
Danilo Gasparini
Docente di storia dell'agricoltura e dell'alimentazione