Una rubrica dedicata alla storia raccontata da Danilo Gasparini: oggi si parla della Quaresima, tempo per antonomasia di astinenza e digiuno.
Prima le parole.
Da un punto di vista etimologico l’italiano Quaresima, come anche il francese carême, deriva dal latino ecclesiastico quadragäsëma, femminile sostantivato dell’aggettivo quadragäsëmus “quarantesimo” e pertanto significa propriamente “quarantesimo giorno” (prima di Pasqua).
Digiuno deriva da jejunius, “affamato”, da cui discende il suo contrario dis-jejunare, rompere il digiuno, che corrisponde al nostro desinare , o disnar e il francese déjeuner…
Nella pratica medica antica esisteva il digiuno volontario come auto-disciplina o come terapia per le indigestioni tra repletio ed evacuatio.
Dal IV secolo “il tempo della Chiesa” condiziona il rapporto fra uomini e cibo: nel mondo cristiano il digiuno assume carattere propiziatorio o penitenziale, e si pratica nel corso dell’anno per oltre 100 giorni, nelle vigilie delle più importanti feste, nelle quattro tempora (di primavera, estate, autunno e inverno) nei giorni di mercoledì, venerdì e sabato. Si alternano così giorni di magro e giorni di grasso. Il digiuno ha alla sua radice motivazioni diverse: si diceva motivi di ordine penitenziale legati all’immagine “pagana” del consumo di carne, che favoriva l’eccesso di sessualità ma c’era anche una certa dose di “Pacifismo” vegetariano di origine greca.
Sarà soprattutto la Regola di San Benedetto (480-547 d.C.) a dettare le norme dietetiche per il nascente monachesimo, che saranno fatte proprie dalla Chiesa intera. Da allora il tempo della religione condizionerà il regime alimentare.
Da qui la necessità di trovare cibi sostitutivi per 100-150 giorni l’anno. Questa la lista: formaggio, uova, pesce, anche d’acqua dolce e non solo di mare, tra cui spiccano il merluzzo (baccalà) e l’aringa.
Un tempo, nelle zone povere del Veneto e della Toscana, c’era l’uso di “battere” un’aringa affumicata sopra delle fette di pane per “mangiarne” il profumo, o di appenderla al soffitto e sfiorarla con una fetta di polenta. Nelle occasioni speciali si usava arricchire la polenta di tutta la famiglia con un’aringa, perché un solo pezzettino bastava ad insaporirne una grande quantità. C’è una clip, nel film di Bernardo Bertolucci Novecento, dove la famiglia del bracciante recita questo rito di miseria davanti all’aringa che oscilla nel vuoto.
Il pesce diventa simbolo della dieta monastica e quaresimale, si carica di valori penitenziali, si eleva a simbolo di una “leggerezza” gastronomica, fisiologica.
Il tutto viene simbolicamente raffigurato in letteratura e in arte nella battaglia fra Carnevale e Quaresima, tra carne e pesce, che si traduce, ancor oggi, e questo è un retaggio a cui nessuno pensa, nella pratica del menu a base di carne e a base di pesce . I ricettari stessi sono organizzati attorno a questa divisione.
Poi il Concilio di Trento sanzionerà con appositi decreti l’obbligatorietà dell’astinenza dalla carne e quindi la liceità del consumo del pesce.
IL BURRO
Gli obblighi di astinenza imposti dalla Chiesa costrinsero giocoforza a sostituire il lardo con l’olio vegetale e il burro.
La contrapposizione fra “regioni dell’olio” e “regioni del burro” si traduce spesso in quella fra la “cucina leggera… magra” e “cucina pesante grassa”, anche se il burro ha le stesse radici culturali del lardo, e come prodotto animale va ricompreso, alla stregua della carne, nei divieti imposti dalla religione nei periodi di astinenza. La dieta quaresimale comporta pertanto la sostituzione dell’olio al lardo e al burro; ma, mentre il lardo è una derrata generalmente diffusa, olio e burro sono fortemente localizzati, l’uno per ragioni geografiche, l’altro per motivi culturali, così che l’alternanza grasso/magro, semplice dove prospera l’ulivo (e dove il burro è pressoché sconosciuto) diventa seriamente problematica in tutto il nord, dove l’olio è una derrata d’importazione, rara e costosa.
Alla Chiesa non resta che ritoccare il concetto di grasso, dichiarando che il lardo fuso “oleum lardinum”, e il burro sono canonicamente ammessi come succedanei dell’olio. Anche nelle regioni italiane, all’annuncio di un rincaro del prezzo dell’olio, per cattivi raccolti o per difficoltà di importazione, la Chiesa concedeva delle licenze per usare il burro in Quaresima. Ma soprattutto fu il burro ad essere ammesso come alternativa all’olio.
Il sistema integrato è chiaro: olio e burro nella cucina magra, lardo nella cucina grassa. Sarà poi, tra XVI e XVII secolo, una marcia trionfale, quella del burro nelle cucine italiane e non solo, tanto da sostituire via via il lardo.
Difficile per il burro l’accoglienza nel sistema alimentare regolato dalla medicina. Scrive il medico padovano Michele Savonarola da Padova, medico di Niccolò d’Este: “…molto l’usano in loco de olio…ma el buthiero nuoce al stomeco e ai soi villi, quelli relaxando, e a chi non l’a usato , ge turba el stomeco… forse questo è una dele rasone il perché nel’Alemagna se trova tanti rognosi e leprosi… non è pasto da tua Signoria”.
Ma il burro poi conquisterà la gastronomia. Nel corso di tale vicenda il burro finì per cambiare statuto, diventando un prodotto “alla moda” anche negli usi delle classi privilegiate del sud. Il momento decisivo di tale svolta pare che avvenne nel XV secolo, come testimonierebbero le ricette di Mastro Martino. Nel Cinquecento la cucina di corte faceva ormai regolarmente uso del burro, e l’Opera di Scappi costituisce un esempio di come scegliere il grasso: lardo e strutto per i giorni di grasso; burro per i giorni di magro (venerdì e sabato); olio d’oliva o di mandorle per le vigilie e le quaresime. Il burro poteva però all’occorrenza anche sostituire gli altri grassi. Tra Sette-Ottocento l’avanzata del burro continuò. E oggi, riguardo al burro siamo qui, alternando demonizzazioni e riabilitazioni: il burro è nella nostra storia e vi deve rimanere, con orgoglio e magari con avara manus, come consigliavano i medici.
Foto di testi antichi per gentile concessione della Biblioteca Internazionale "La Vigna" di Vicenza.