Fa freddo a Fobello, è tutto ghiacciato e le montagne che circondano il caseificio sono innevate. Ma la storia di Gianluca ci scalda il cuore: una storia di coraggio e determinazione, non solo di formaggi (buoni)
E’ agguerrito, Gianluca.
La sensazione è che qualche volta si senta solo, nel difendere un territorio abbandanato a sè stesso e nel portare avanti una piccola produzione di formaggi a latte crudo, lottando contro le barriere all’ingresso che la normativa e la concorrenza “dei grandi” impone.
Ma è anche orgoglioso, dei risultati e dei riconoscimenti ottenuti, non ultima la vittoria al Piemonte Food Awards nel 2018 come miglior caseificio artigianale.
“A volte mi sembra di essere Don Chisciotte, che lotta contro i mulini a vento”, confessa mentre mangiamo una pizza per pranzo.
Ma non si arrende, anche se la vita è tutt’altro che facile in Valsesia. Con la tenacia e la consapevolezza di chi è sicuro di percorrere la strada giusta.
Siamo a Fobello, in provincia di Vercelli, nella parte nord orientale del Piemonte, nel Parco dell’Alta Valsesia, l’area naturale protetta più alta d’Europa che comprende il Monte Rosa
Fobello è un comune di 194 anime. “D’estate - precisa Gianluca - perchè d’inverno ci abitano sì e no un centinaio di persone”.
Alain, suo figlio, è l’unico bambino tra i 6 e i 10 anni e per andare a scuola si fa ogni giorno 10 km.
E’ l’ennesima testimonianza di uno dei tanti piccoli borghi che pian piano si spopolano e muoiono.
E’ l’ennesima testimonianza di un eroe che si fa carico in prima persona di resistere, per continuare a far vivere un territorio, una comunità, laddove andarsene sarebbe la scelta più facile, più scontata, forse più razionale
Invece no.
“Sono tornato a Fobello dopo aver lavorato 7 anni a Cannes come agente immobiliare”.
Una laurea in economia, motociclista nell’anima, Gianluca Bacchella lascia tutto e decide di tornare nel paese dove ha trascorso l’infanzia, dove da ragazzino aveva una tazza appesa a un albero con cui andava, con gli amici, a mungere di nascosto il latte dalle vacche che pascolavano dietro casa.
“E’ dura, ma è un posto vero, fatto di relazioni autentiche. La Costa Azzurra è bellissima, ma contano solo i soldi, non era quello che volevo fare nella mia vita”
E’ il 2003 e il bando della Comunità Montana per la gestione del caseificio nell’alpeggio Roj è andato deserto per la terza volta.
Bruno, compagno di Ileana, mamma di Gianluca, decide di prenderlo in gestione. “Non costa niente, ce lo danno gratis, facciamo un po’ di formaggi per gli amici”.
Così è nata la Giuncà, un po’ per caso, un po’ perchè Bruno Giovannacci il mestiere di casaro ce l’ha nel sangue.
Figlio e nipote di casari da tre generazioni, prova il mestiere da ragazzo ma non lo ama.
Decide di fare il geometra, finchè non incontra Ileana, che gli fa scoprire la Valsesia. Si innamora di entrambe. In uno dei viaggi di ritorno a casa dalla Costa Azzurra Gianluca assaggia i formaggi di Bruno.
Formaggi che hanno una storia da raccontare, quella di un alpeggio dove si arriva con fatica su una strada sterrata, dove per portare il latte d’inverno il camioncino deve essere trainato da una jeep davanti e una dietro
Formaggi fatti con il latte degli ultimi pastori, che allevano anche solo 10-20 capi a famiglia.
Così Gianluca lascia Cannes e torna a casa, carica i formaggi su un furgoncino e va a presentarsi alle formaggerie piemontesi e lombarde. “Sei matto? Costano troppo”, è il ritornello che si sente ripetere.
Finchè non riesce a farli assaggiare: “Se li assaggiano poi li comprano. Questa è la chiave”.
Così ha convinto anche noi.
Con la Giuncà avevamo già lavorato una decina di anni fa, ma al tempo la sede era ancora a Roj ed era difficile mantenere costanza nella produzione, ammette Gianluca.
E così nonostante la scintilla scattata già al tempo, quando eravamo stati a trovarli nel lontano 2010, dopo qualche tentativo avevamo a malincuore sospeso la collaborazione.
Ritornare a Fobello dopo 10 anni ci ha regalato un’emozione unica: ritrovare gli stessi volti in un caseificio più grande e strutturato ci ha fatto un enorme piacere
Ora la sede del caseificio si trova nel paese di Fobello, non nella frazione di Roj, sempre in alta quota ma un po’ più accessibile.
Costanza è una parola che Gianluca ripete come un mantra.
Costante deve rimanere la temperatura del latte durante la lavorazione, costante deve essere il pH, così come la “spezzatura” della cagliata
Solo così riescono a ottenere dei formaggi con delle caratteristiche riconoscibili nonostante il latte crudo e la stagionatura in ambienti naturali.
Rigorosamente senza l’uso della chimica
Ma ripartiamo dall’inizio. Il latte oggi viene raccolto con dei padroncini in una zona molto estesa, che va dall’Alto Biellese all’Alta Valsesia fino all’Alto Monzese, e proviene da tantissimi micro allevamenti.
A volte è lo stesso pastore a portare al padroncino 40/50 litri di latte, perchè si trova in luoghi disagiati e la quantità prodotta è troppo ridotta per giustificare la strada.
Il latte viene quindi stoccato in tank refrigerati e lavorato rigorosamente a crudo due o tre volte la settimana a seconda della disponibilità e della stagione: da 100 a 400 quintali di latte a settimana a seconda del periodo.
Gennaio è il mese in cui si riprende a lavorare il latte di capra
“Alcuni degli allevamenti sono riusciti a gestire l’asciutta a rotazione e destagionalizzare quindi un po’ la produzione, ma noi sospendiamo comunque la lavorazione dei caprini freschi durante il periodo di asciutta perchè il latte non è ottimale per questo tipo di lavorazione. Pastori tecnologici siamo stati definiti da diversi critici gastronomici, perchè controlliamo in modo maniacale temperatura e pH, ma anche perchè ci piace sperimentare tante diverse tecnologie di lavorazione. Produciamo più di 40 tipologie di formaggi, dai caprini freschi alle tome stagionate, fino al burro”
“Qui in Valsesia una volta la Toma Valsesia e il burro erano moneta di scambio per i pastori: le gerle venivano riempite con le tome e nei buchi veniva messo il burro per portarli al mercato. La Toma Rossa invece era una toma più grande che veniva prodotta per sfamare la famiglia: grande, così poteva stagionare a lungo e durare fino al periodo di alpeggio successivo e dalla pasta sufficientemente dura per poter essere impilata a coltello negli zaini trasportati dagli asini. Il burro invece veniva chiarificato e conservato in dispensa, quando ancora non c’erano i frigoriferi”.
Il caseificio è vuoto, oggi non c’è produzione, ma dobbiamo comunque indossare grembiule e copriscarpe.
I locali vengono sanificati ogni giorno per evitare contaminazioni di qualunque tipo. Anche quando entriamo nella sala di confezionamento ci assale un odore pungente di disinfettante.
Su questo Gianluca è intransigente: “lavorando esclusivamente latte crudo dobbiamo essere rigorosi sull’igiene”.
A partire dalla selezione dei pastori, che devono essere innanzitutto puliti
Il latte crudo viene pompato in caldaia dal silos esterno di stoccaggio e portato a una temperatura di 36-43°C a seconda della lavorazione.
Dopo l’estrazione della cagliata le forme passano in una prima camera calda per rallentare la caduta del pH, una sorta di stufatura; quando raggiungono l’acidità desiderata vengono spostate in locali a temperatura ambiente o in una seconda camera calda con una decina di gradi in meno: in tal modo lo sbalzo termico stabilizza il pH. Solo a questo punto il formaggio “è nato”, dice Gianluca.
Si passa quindi alla salatura, in salamoia per le forme grandi, a secco per i piccoli, dopo di che i formaggi passano in una cella di prestagionatura, dove inizia la “cicatrizzazione della crosta”, e qui aspettano che si liberi spazio in grotta dove inizierà la vera stagionatura.
E’ curioso vedere la varietà di fuscelle e stampi utilizzati: lo stampo del Gianduiotto, frutto di uno studio ingegneristico, con l’obiettivo di rendere più uniforme l’assorbimento del sale ma anche di riuscire a maneggiare uno stampo che contiene 18/20 kg di cagliata; o la fuscella in metallo di 50 anni fa, ancora oggi usata per la Toma Rossa; e soprattutto quella della Beola: una cassetta di plastica, come quella della frutta, in cui il formaggio viene messo in forma avvolto in una tela.
“La crosta è la vera carta di identità del formaggio. Le muffe ti dicono tutto, che stagione è - sono grigio scuro d’inverno e diventano gialle-bianche-rossicce in primavera e in estate - se c’è stato uno sbalzo termico, se la forma è stata girata in modo accurato”
Lasciamo il caseificio e dopo una breve passeggiata tra le viuzze di Fobello raggiungiamo una delle dieci cantine seminterrate, dislocate in varie parti del paese e utilizzate da Gianluca per la stagionatura.
Avevo visto le foto, ma non me le aspettavo così piccole: grotte naturali che ospitano poche scalere in legno, dove per entrare ci si deve abbassare, dove la temperatura rimane costante e le muffe hanno tempo di lavorare a lungo. In primavera e in estate, con l’aumentare dell’umidità, i formaggi tendono ad appicicarsi alle assi, chiudendo i pori del legno.
Le cantine vengono quindi svuotate e pulite due volte al mese, le assi di legno portate in caseificio e lavate con l’idropulitrice per ripulirle in modo da permettere al formaggio di respirare durante la stagionatura. Un bel lavoro!
Sarà anche vero che costano tanto, ma forse la domanda giusta è quanto valgono: quanto vale salvare una tradizione o mantenere vivo un piccolo borgo...
Martina Iseppon
Responsabile Marketing