Salgo per l’ennesima volta la scalinata del Castello di San Salvatore: stiamo allestendo il nostro più importante evento annuale in cui presentiamo ai nostri clienti i prodotti che selezioniamo ma soprattutto i produttori, personaggi innamorati delle loro creature. Mi fermo a salutare un’amica che ha portato con sé suo figlio: 11 anni e una spiccata predisposizione per le domande. Subito infatti mi chiede: “Perché tanta fatica per il cibo, se nel supermercato dietro casa puoi trovare tutto quello che ti serve, già pronto e sistemato nelle scatole?”. “Sei sicuro – rispondo incuriosita – che ci sia tutto ciò di cui hai veramente bisogno? Ti faccio un esempio: quando hai fame cosa fai?” ”Lo dico alla mamma e lei mi da qualcosa da mangiare!”. “E se ti da i broccoli oppure una barretta di cioccolato, tu cosa preferisci?” “La cioccolata: ovvio!”. Gli domando perché preferisca la cioccolata ai broccoli e mi risponde candidamente, che è più dolce e che lo fa sentire un po’ coccolato. “Ed è la stessa cosa se la cioccolata te la dà la mamma oppure io?” “No, dalla mamma è meglio perché è la mamma”. “Non credi, dunque, che la tua mamma ti dia sempre del cibo per il tuo bene? Magari dovresti trovare l’amore anche in altre cose da mangiare che sono preparate con cura, non solo nella cioccolata”. Sorride, si volta verso sua madre, tirandole l’orlo della giacca: “Mamma, compriamo i broccoli perché domani ti faccio io la merenda, perché ti voglio bene anch’io!”.
A volte ci sono significati che restano celati, che attendono di essere scoperti da occhi onesti, come quelli di un bambino: in fondo, ha compreso come il cibo sia essenzialmente una risposta ad un bisogno. Meglio ancora, una risposta a molteplici bisogni che ciascuno di noi ha.
Ripenso agli anni dell’università e alla Piramide dei bisogni di Maslow (1954): la materia sazia il bisogno fisiologico della fame, ma si fa anche tramite di un atteggiamento di cura. Attraverso il cibo è comunicato il proprio bisogno di amare e sentirsi amati, ma il cibo può anche diventare una scelta etica e sociale, veicolo di molteplici valori. L’orizzonte dei bisogni espresso dall’uomo non si conclude qui poiché la necessità viene avvalorata dalla sensazione, fattore immediato nella fisiologia umana. Mi viene in mente un aneddoto: ero in azienda in una torrida giornata d’agosto a sostituire un collega del commerciale, chiamando alcuni clienti per diversi ordini; alcune domande hanno risvegliato la mia curiosità.
“Mi può consigliare un prosciutto cotto senza polifosfati?”. Le ho immediatamente proposto un prosciutto cotto ‘alta qualità’, che per legge deve essere prodotto senza proteine del latte e senza polifosfati; mi ha poi chiesto se avesse ‘la spiga sbarrata’ (certificato AIC senza glutine) e senza glutammato. “Avete dei formaggi di capri biologici?” ha chiesto poi e io ho suggerito alcuni caprini freschi di due produttori locali, alcuni certificati bio, altri della linea convenzionale. “Preferisco quelli con il marchio bio” ha detto, “sa, i clienti si sentono rassicurati”.
Rassicurati. Ecco la parola chiave che fa da filo conduttore a tutte queste richieste. La ricerca di prodotti ‘senza’ anche da parte di persone che non sono intolleranti, di prodotti biologici o certificati, risponde a un bisogno di sicurezza: vogliamo essere sicuri di scegliere dei cibi che facciano bene (o che almeno non facciano male). Ma spesso, nella giungla dell’etichettatura alimentare, i molteplici marchi, certificazioni e slogan diventano falsi elementi di rassicurazione. La conoscenza e consapevolezza sono l’unica reale difesa: scegliere prodotti il più possibile da filiere corte, dove il legame tra produttore, territorio e animali è simbiotico, etico, rispettoso. Anche in questo campo vale il principio less is more.
Questa consapevolezza sulla natura di un prodotto può diventare ancora più profonda se pensiamo al percorso di creazione che lo sottende, alla cura e alla passione che lo accompagnano nella sua evoluzione: la distanza si accorcia e noi ci sentiamo un po’ più vicini alla terra. Se poi si ha la possibilità di mettersi in gioco in prima persona e di creare personalmente il prodotto, l’emozione e la consapevolezza che se ne ricavano sono ancora più forti.
È il caso dell’esperienza unica che ho recentemente vissuto, la Parmigiano Experince, che mi ha dato una carica emotiva altissima: ho prodotto il Parmigiano Reggiano. Da qualche tempo infatti Paolo, Rosangela e Tino Gennari hanno ideato la possibilità di produrre in prima persona il loro formaggio e di acquistare ciò che si ha prodotto a stagionatura ultimata, il tutto a fronte di un contributo che parzialmente va in beneficenza all’AIRC. Da spettatori si diventa attori, da fruitori a produttori.
Ripercorro mentalmente quella mattina. Alle sei io e altri due clienti siamo entrati bardati di camice e copriscarpe: le caldaie di rame erano vuote, attendevano il latte scremato della sera e il latte intero del mattino; all’arrivo dei casari in noi si è fatta spazio la sensazione che qualcosa di magico stesse per accadere. Abbiamo cominciato a miscelare il latte, aggiungere il caglio, regolare le temperature, tagliare la cagliata e sentirla con le mani; abbiamo atteso che la massa precipitasse nella caldaia conica e poi l’abbiamo fatta emergere prima di metterla nelle fascere di legno. Abbiamo autografato la nostra forma, rigorosamente sul piatto superiore, poi è iniziata l’asciugatura, la salatura e la stagionatura, che si protrarrà per almeno due anni. Questo ha reso l’esperienza unica: il cibo si è trasformato da nutrimento ad esperienza e così ha risposto ad un bisogno di conoscenza, di scoperta, che è ricchezza.
Ecco, dunque, ritornando al Castello di San Salvatore, il motivo per cui mi piace fare quello che faccio: scegliere dei prodotti unici e raccontarli attraverso le emozioni di chi li crea. Accompagno alla sua postazione Filippo Bier, uno dei produttori del Presidio della Pitina della Val Tramontina, per concordare come gestire la presentazione, centellinando gli assaggi: sono chi ascolta può assaggiare. Prima della degustazione infatti viene il racconto di come nasce la Pitina, per poter contestualizzare il prodotto, riconoscere gli ingredienti: “Nella Val Tramontina – mi racconta Filippo – se si uccideva un camoscio o un capriolo, se si feriva o ammalava una pecora o una capra, troppo preziose per essere macellate, si doveva trovare il modo di non sprecare nulla: era necessario inventare”. È il leitmotiv di moltissimi prodotti della nostra gastronomia che oggi, in una società sazia, hanno perso il loro significato originario; cibi che, generazione dopo generazione, tendono a scomparire. Alcuni sono stati salvati dall’oblio: il progetto dei Presidi Slow Food ha ridato significato a queste produzioni, rinnovandone il bisogno, ponendo attenzione alla salvaguardia della biodiversità; ha aggiunto una dimensione etica al consumo. Così la scelta di un prodotto diventa un modo per salvaguardare una tradizione, sostenere un produttore, tutelare l’ambiente, salvare dall’estinzione una razza.
Così il cerchio si chiude, o meglio si mette il cappello alla piramide di ciò che cerchiamo di soddisfare attraverso il cibo: compiamo scelte che possano renderci fieri di noi stessi. Preparare, scegliere, mangiare un cibo piuttosto che un altro è un esercizio di libertà, un gesto in cui sono in gioco la propria moralità, il proprio senso di giustizia e la propria autorealizzazione.
Martina Iseppon & Alessandro De Conto